«Chi, dunque, si purificò maggiormente con l’aiuto dello Spirito e si rese degno di esporre le cose divine? Chi è stato di più illuminato dalla luce della conoscenza ed è penetrato nelle profondità dello Spirito, scrutando con l’aiuto di Dio le cose di Dio? Chi ebbe un linguaggio che fosse interprete più efficace dei propri pensieri, così da non zoppicare, come fa la maggior parte degli uomini, in nessuno dei due casi, né quando il pensiero non trova modo di esprimersi né quando l’espressione non è conforme al pensiero, ma segnalandosi con uguale fama nell’uno e nell’altro caso e mostrandosi sempre all’altezza di se stesso e profondamente equilibrato? […] Di Basilio la bellezza era la virtù, la grandezza la teologia, il corso l’incessante movimento che conduce e innalza fino a Dio, la forza il seme della parola e la sua distribuzione, tanto che io posso dire, senza alcuna esitazione, che la sua voce si è diffusa su tutta la terra e la forza delle sue parole ha toccato i confini del mondo, secondo quanto Paolo disse agli Apostoli, prendendo da Davide questa espressione (Sal 19 [18], 5; Rm 10, 18). […] Quando ho per le mani il suo Esamerone e lo riferisco con la mia lingua, io mi ritrovo con il Creatore, comprendo le ragioni della creazione e ammiro il Creatore più di prima, quando avevo come maestro soltanto la mia vista. Quando mi trovo a leggere i suoi scritti controversiali, io vedo il fuoco di Sodoma, dal quale sono incenerite le lingue malvagie e violente, o la torre di Calane, iniquamente costruita e giustamente abbattuta. Quando sono a leggere quei suoi scritti che trattano dello Spirito, io ritrovo il mio Dio ed esprimo liberamente la verità, perché mi fondo sulla sua teologia e sulla sua contemplazione. Quando ho a che fare con gli altri commentari, che egli ha composto per coloro che sono di scarsa perspicacia, dopo averli per tre volte incisi sulle robuste tavolette del suo cuore, mi convinco a non fermarmi alla lettera e ad esaminare non solo gli elementi più in superficie, ma a spingermi oltre e a passare da profondità a profondità, richiamato all’abisso dall’abisso, e trovando luce grazie a luce, fino a quando non giunga al punto più alto. Quando leggo gli encomi dei martiri, non tengo conto del corpo, sono con quelli che elogio e mi desto per la lotta. Quando mi occupo dei discorsi che riguardano la morale o la vita pratica, mi purifico nell’anima e nel corpo, divengo un tempio per ospitare il Signore e strumento percosso dallo Spirito, inneggiante alla gloria e alla potenza divina: da lui traggo la mia armonia e il mio ritmo, grazie a lui sono diventato altro da quello che ero, subendo metamorfosi divina».
Così Gregorio Nazianzeno, in questa lunga, ma splendida citazione dall’orazione XLIII (capp. 65-67, qui proposti nella traduzione di M. Vincelli in Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni. A cura di C. Moreschini, Milano 2000), elogia, in pieno ossequio alle leggi dell’encomio, le virtù e la forza dell’eloquenza di Basilio di Cesarea. Pronunziato a Cesarea il primo gennaio del 382, nel giorno anniversario della morte, ma con ogni probabilità rivisto, corretto ed accresciuto, il discorso per Basilio non è soltanto un encomio del personaggio, ma una vera e propria summa universale da proporre alla Chiesa. Reduce dalla sfortunata avventura costantinopolitana che gli costò l’allontanamento dal Concilio, Gregorio vuole infatti proporre ai vescovi dell’epoca una vera e propria lezione pastorale; e nell’elogiare l’amico di vecchia data questo non può che trovare il terreno più fertile. Instancabile indagatore della cultura (non soltanto quella cristiana), asceta, uomo d’azione e fine esegeta della Scrittura, Basilio incarna, sia nelle parole di Gregorio che nella realtà dei fatti, la prefigurazione del vescovo ideale che forse più di tutti riuscì ad unire theoria e praxis per il bene della Chiesa e della fede ortodossa, per la difesa della quale lottò strenuamente per tutta la vita.
Basilio di Cesarea, una vita vissuta nell’azione
Nato attorno al 329 a Cesarea di Cappadocia da una facoltosa famiglia cristiana di proprietari terrieri, figlio di un famoso maestro di retorica e di Emmelia, madre di dieci figli (un vero e proprio «esercito di celesti», come ricorda ancora Gregorio in Antologia Palatina VIII, 161, 6), Basilio crebbe fin da subito nell’educazione cristiana. Fu la nonna ad impartirgli anzitutto i precetti di Gregorio il Taumaturgo. La sua prima formazione culturale gli derivò dal padre, il quale lo mandò a perfezionare gli studi a Cesarea, a Bisanzio e quindi ad Atene, dimora dell’eloquenza, ove conobbe Gregorio di Nazianzo: allievo di Imerio e Proeresio, assieme a lui ebbe la possibilità di frequentare gli stessi ambienti del coetaneo Giuliano, futuro imperatore Apostata. Tuttavia, il soggiorno ateniese terminò presto: ritiratosi nella tenuta familiare nel Ponto, dove con brevi interruzioni rimase fino alla metà degli anni sessanta, qui potè attuare un progetto di vita contemplativa, al quale partecipò anche il Nazianzeno, sfociata, come ben si sa, nella compilazione dell’antologia origeniana intitolata Filocalia, e nella composizione delle Regole e della polemica dogmatica Contro Eunomio.
L’anno della svolta fu il 365. Basilio, infatti, lasciò l’eremo per tornare a Cesarea ed intraprendere così quella carriera sacerdotale che dopo qualche anno lo consacrò a vescovo. L’iter fu in effetti breve ma denso di avvenimenti, così importanti e significativi che senza il loro sfondo non potremmo cogliere con precisione le finalità e gli scopi, non soltanto letterari, ma anche sociali, della sua produzione omiletica: un vero e proprio specchio, com’è possibile cogliere con facilità, di realtà e spaccati storici estremamente imprescindibili per la ricostruzione del panorama cappadoce di IV secolo.
Della rinuncia alla vita monastica, della prima esperienza ecclesiale e del clima a lui circostante Basilio parla, in effetti, molto poco, forse per la sua posizione inizialmente subordinata, dunque poco degna di resoconti ufficiali. È però Gregorio (or. XLIII, 25 e 33) ad informarci che l’amico, nei primi anni di vita ecclesiastica, osservò rigidamente, se non ostentatamente, il nuovo tenore di vita. Basilio sarebbe tornato in città, dopo il severo ritiro ascetico, per contrastare l’arianesimo di Valente. E di certo questo giocò un ruolo fondamentale, visto il successo ottenuto, ma la difesa dell’ortodossia non doveva essere l’unico desiderio che stava dietro la vocazione basiliana per la vita ecclesiastica. Da buon seguace di Eustazio di Sebaste, si mostrò infatti molto interessato – e forse anche in misura maggiore di quanto sostenuto da Gregorio sulle lotte dogmatiche – a intraprendere una missione sociale fondata su un rapporto univoco tra amministrazione della Chiesa, intesa come sistema di dialogo con le autorità e l’impero, ed esercizio ascetico, ossia la sua incorporazione nella vita quotidiana della Chiesa.
Questo atteggiamento di stampo filantropico, tutto sommato in linea con le tendenze del tempo, gli spianò letteralmente la strada verso l’episcopato. Nel 369 infatti, in Cappadocia, si scatenò una violenta carestia, la stessa descritta nelle Omelie Diverse VI, VIII e IX (su cui vd. infra) e nell’Epistola XXXI, e Basilio si adoperò moltissimo per fronteggiare la dura crisi, cercando di applicare quegli stessi principi morali, appresi in passato grazie all’esperienza ascetica, alla realtà di quel tragico momento: i malati venivano curati, ai poveri era dato ciò che ai ricchi era di superfluo, e soprattutto venivano costruite strutture, quasi fossero una kainè pòlis (così Greg. Naz. or. XLIII, 63), «una nuova città», affinché vi fossero ospitati i bisognosi e gli indigenti, e contribuisse anche all’edificazione morale del popolo dei fedeli. Il complesso, probabilmente già esistente, sarebbe stato inaugurato qualche anno più tardi, per lo più a spese dello stesso Basilio.
È in un tale contesto che Basilio, non senza opposizioni e contrasti, riuscì a ottenere l’episcopato di Cesarea nel 370 (scenario in cui si contestualizzano la maggior parte delle Omelie Diverse, così come le Omelie sui Salmi, dell’esordio della carriera, e l’Esamerone, datate al 377); una preziosa posizione, questa, che poté difendere fino a un certo punto grazie anche a quella fitta rete di conoscenze che gli permisero di mantenere saldo il progetto ecclesiastico a lui così caro, avendo dalla sua parte familiari, amici e sostenitori. Cesarea godeva di dignità metropolita, e il neoeletto vescovo, esercitando le funzioni di esarca nell’amministrazione imperiale, si trovò a dover affrontare diversi problemi: su tutti, l’arianesimo di Valente e lo scisma antiocheno. In un quadro già di per sé tanto complesso, la scelta dell’episcopato costò anche la delusione del Nazianzeno, in particolare a causa di un preciso avvenimento che portò a un incrinamento del rapporto, da cui i due non si ripresero mai del tutto. Nel 372, per ordine di Valente, la Cappadocia fu divisa in due parti, e altrettante divennero le capitali: Cesarea, con vescovo Basilio, e Tiana, con vescovo Antimo. Quest’ultimo rivendicò, a quel punto, la dignità metropolita nella nuova regione sotto il suo controllo, e Basilio, spogliato della superiorità, e volendo preservare la sua posizione, cercò di rientrare in possesso di certe zone, situando in modo strategico, presso alcune diocesi, degli uomini di fiducia come suoi collaboratori. Fu così quindi che, per reagire alla evidente riduzione della sua influenza, Basilio posizionò il fratello Gregorio a Nissa, e l’amico di gioventù nel poverissimo centro di Sasima; quest’ultimo, che, considerata la mossa di Basilio come eccessiva e opportunistica, volta al solo scopo utilitaristico, in un primo momento accettò, ma poi rifiutò. Si è compreso, fin qui, ed è assai importante per capire molti punti della predicazione di Basilio, l’ideale di questa vocazione episcopale, le sue finalità, e quindi la concezione della vita filosofica; un disegno ben diverso da quello sposato, invece, da Gregorio, per il quale sacerdozio e vita filosofica non potevano essere pienamente compatibili. L’uno, infatti, sarebbe andato a minare le basi dell’altra.
Nello stesso tempo prendevano corpo le aspre controversie dogmatiche con Eustazio di Sebaste a proposito della divinità dello Spirito Santo, che questi non riconobbe, finendo così per accostarsi all’eresia degli pneumatomachi. Vari gli incontri fra i due con il tentativo di Basilio di riavvicinare Eustazio all’ortodossia, che portarono però alla composizione del trattato Sullo Spirito Santo (siamo fra il 374 e il 375), dedicato ad Anfilochio di Iconio. Il testo, preziosissimo per la ricostruzione della disputa, segnava però una nuova fase del pensiero di Basilio, quella ormai lontana dall’eresia ariana, che culminò con la sua morte il primo gennaio del 379.
Le Omelie Diverse come testi letterari e i loro contesti: uno specchio sulla Cappadocia del IV secolo
L’attività omiletica tenne impegnato Basilio fin dall’inizio del suo impegno sacerdotale, anche se, a onor del vero, non dovette occuparlo in modo tanto esclusivo come accadde, al contrario, nel caso di Giovanni Crisostomo, la cui immensa opera occupa ben diciassette tomi di Patrologia Graeca. Ad ogni modo, non dobbiamo pensare che la quantità di scritti pervenutici riconducibili alla paternità basiliana equivalga al numero di omelie effettivamente pronunciate dal vescovo davanti al suo uditorio. È assai probabile, infatti, che il materiale giunto per tradizione medievale corrisponda a una selezione, fors’anche in parte operata dall’autore in persona, degli scritti più significativi.
Della produzione omiletica di Basilio si riconoscono fondamentalmente tre nuclei: le Omelie sui Salmi, di cui quindici genuine e quattro spurie, le Omelie sull’Esamerone, in totale nove, vero e proprio capolavoro della letteratura cristiana greca, e infine le Omelie Diverse, le più numerose e tematicamente varie, nonché le più difficili da collocare con precisione nell’arco cronologico della carriera ecclesiastica del vescovo di Cesarea. Esse, per ricchezza di contenuti e qualità retoriche ed edificatrici, sono ricordate con piacere anche da Gregorio di Nazianzo nel brano citato in apertura.
Nell’ultima edizione complessiva curata da Julien Garnier e riproposta nel volume trentunesimo della Patrologia Graeca di Migne, il numero di queste Omelie ammonta a un totale di ventiquattro (tra di esse si annovera anche il celeberrimo Discorso ai giovani, da ritenersi piuttosto, per le sue vicende tradizionali e per i contenuti, un trattato a sé, e il Panegirico per Barlaam, sicuramente spurio). Esse appartengono ai periodi più disparati del percorso sacerdotale di Basilio e ci offrono un singolare spaccato storico di notevole importanza per avere un quadro sulla società cappadoce del secolo IV. Secondo il volume presentato a cura di chi scrive, edito da Città Nuova nel 2019, qui limiteremo l’indagine alle Omelie I-IV, VI-XVI, XX, XXI e XXIV, tralasciando le due opere poc’anzi citate e le quattro dedicate ai martiri di Cappadocia (cioè le Omelie V, XVIII, XIX e XXIII, tradotte da Mario Girardi nel volume 147 della ‘Collana dei Testi Patristici’).
L’Omelia XII
Procedendo per ordine cronologico, laddove sia possibile desumere dettagli probanti al fine di una datazione più o meno sicura, il testo più antico, e forse uno dei più interessanti, è sicuramente l’Omelia XII Sul principio dei Proverbi, pronunziata verso il 364 dinanzi a Eusebio. Presentandosi come un debuttante che deve dare prova delle sue abilità sul libro dei Proverbi, Basilio affronta temi basilari ma fondamentali: ivi si parla della trascendenza di Dio, dell’utilità pratica dei Proverbi, dei primi passi da muovere nel percorso ascetico e le fondamenta della morale cristiana. In una fitta trama di citazioni e immagini bibliche, fra esse collegate mediante il metodo esegetico alessandrino e molteplici reminescenze platoniche e stoiche, Basilio mostra singolari capacità di sintesi, porgendosi il destro anche per rimarcare la superiorità della cultura cristiana rispetto a quella profana. Ricordo, a questo proposito, la pregnanza del capitolo sesto, in cui l’omileta elenca una serie di dottrine di origine pagana, come la geometria, l’astrologia e lo studio dei fenomeni celesti, quindi la retorica e la poesia, tutte reputate inferiori qui all’indagine di Dio, ma, cosa che non va dimenticata al fine di una corretta comprensione del rapporto fra cultura pagana e cultura cristiana nel IV secolo, tutte praticate nella enkùklios paideìa e alcune di esse reputate fondamentali dallo stesso Basilio per la crescita del giovane cristiano (si veda, per questo, il Discorso ai giovani, ed anche il carme I, 2, 10 Sulla virtù di Gregorio Nazianzeno).
L’Omelia XI
Di poco posteriore a questa è la più breve Omelia XI, volta alla descrizione del vizio dell’invidia, anch’essa scritta da Basilio, così parrebbe, all’inizio della carriera ecclesiastica. L’occasione che dovette generarla sarebbe da ricercare nelle gelosie dei detrattori suscitate dalla predicazione del Cappadoce: alcuni riferimenti in merito si leggono sia nell’incipit, sia nel quinto capitolo. I temi e i motivi che animano il discorso sono topici e tradizionali della predica cristiana: troviamo i canonici exempla biblici degli invidiosi (Caino, Saul, i fratelli di Giuseppe e i Giudei che assassinarono Gesù), alcuni dei quali si possono riscontrare anche in una delle Omelie sulle beatitudini di Gregorio di Nissa, vivide descrizioni psicosomatiche del peccato, per alcuni aspetti analoghe, nella resa oratoria, a quelle fornite per l’ira nell’Omelia X, nonché svariate osservazioni che rimontano a quel bagaglio di stoicismo vulgato largamente accolto dai Padri nell’esposizione della dottrina.
Le Omelie VI, VII, VIII e IX
Databili con sicurezza al biennio 368-369 sono invece le Omelie VIII, IX, VI e, seppur con minore certezza, la VII. Questi testi, accomunati dalla critica della ricchezza e dall’elogio della povertà, furono composti e pronunciati nel corso del biennio 368-369, quando in Cappadocia si scatenò la violenta carestia che mise a dura prova le classi sociali più basse. Memorabile la descrizione della carestia che si legge nell’Omelia VIII: essa, osserva Basilio, sarebbe stata provocata dall’estrema secchezza dell’inverno e della stagione primaverile. Le pagine di questo testo vibrano per realismo e ricchezza di par- ticolari descrittivi. Il testo di Basilio parla da sé e non risparmia dettagli, per certi aspetti di un’attualità disarmante: «La fame consuma l’umidità che si possiede per natura, raggela il calore, diminuisce la massa corporea e a poco a poco consuma la forza. La carne di aggrappa alle ossa come se fosse una ragnatela. La pelle perde il suo fiore, poiché, con venir meno del sangue, fugge il rossore e con l’annerirsi della pelle per la secchezza svanisce il candore» (cap. 7). L’Omelia IX analizza la questione sotto l’ottica generale del problema dell’origine del male: non Dio, ma la malvagità dell’uomo, che non accoglie lo Spirito del Signore e, per sua scelta, aderisce al Maligno. Il testo è estremamente fondamentale per lo sviluppo dei concetti di libero arbitrio e di sussistenza del male. Quanto, invece, alle Omelie VI e VII, l’una offerta dall’esegesi della citazione da Lc 12, 18 Demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi, l’altra, di ordine generale, come invettiva ai ricchi, simile per molti aspetti al all’Orazione XIV e al carme I, 2, 28 di Gregorio Nazianzeno, pur scaturendo come le due precedenti da osservazioni socio-economiche reali, appaiono costruite sulla base di schemi retorici ben compaginati, che seguono il genus iudiciale e deliberativo dell’oratoria antica. In un continuo intersecarsi di fonti scritturistiche e filosofiche popolari, Basilio condanna gli avari analizzando il problema dall’alto, cioè nell’ottica dell’umanità nella sua interezza: la ricchezza, dunque, se incanalata verso Dio attraverso gli indigenti, sarà il mezzo per potersi guadagnare il regno dei cieli. Ed anche l’Omelia XX, il cui tema è l’umiltà, analizzata in chiave per lo più paolina, sembra appartenere al periodo del sacerdozio.
Le Omelie III e XIII
Lo stesso può dirsi per l’Omelia III, esegetica, fondata su un’interpretazione di Dt 15, 9 Bada a te stesso. Questa è una delle omelie più importanti del corpus, in quanto espone in maniera sistematica la sua visione della natura dell’uomo. Basilio, rammentando il processo di creazione dell’uomo operato da Dio, sostiene che la nostra natura è costituita per lo più dalla controparte intellettuale; il corpo, invece, non sarà altro che un possesso, un mezzo o un veicolo al nostro servizio (in pieno senso platonico). Il testo ha ricevuto moltissima attenzione dai critici, sia antichi che moderni, per l’importanza degli spunti proposti, innanzitutto in relazione al problema delle fonti adoperate, e anche per la portata antropologica del tema: la necessità, cioè, di riscoprire la propria natura per risalire alla nozione e all’assimilazione a chi ci ha creato.
È successiva l’Omelia XIII, un’esortazione al battesimo, molto simile all’Orazione XL di Gregorio Nazianzeno e all’omonima del Nisseno. Nella presentazione dei temi e dei motivi, il testo è, tutto sommato, tradizionale: il battesimo, osserva l’omileta, arreca illuminazione perché purifica l’anima, è una seconda circoncisione e permette di avvicinarsi alla conoscenza di Dio creatore. Particolare enfasi è data, tuttavia, alla necessità di non rimandare troppo l’accoglienza dell’unzione battesimale, un tratto che si riscontra nei discorsi dedicati a codesto tema anche dagli altri Cappadoci. Si comprende, dunque, che tra i cristiani del tempo vi era l’abitudine di accettare il battesimo in tarda età, se non addirittura in punto di morte. Ne sono una testimonianza il fratello e la sorella del Nazianzeno, Cesario e Gorgonia, che lo ricevettero molto tardi.
Le Omelie I, II, IV, X, XII e XIV
La predicazione episcopale di Basilio è altresì segnata dalle Omelie I e II dedicate al digiuno, e pronunciate entrambe nella domenica precedente la Quaresima. Qui Basilio sottolinea i molteplici benefici sia spirituali che igienici della pratica: l’uomo, digiunando, non solo accoglie la moderazione e la temperanza, imitando i grandi esempi della Scrittura (ad esempio Daniele, Lazzaro, i giovani di Babilonia), ma anche evita la malattia causata dall’eccesso del pasto e del vino, amministra meglio il proprio patrimonio, senza sperperare inutile denaro in cene e feste sontuose, non cade nella tentazione, vivendo, insomma, come un asceta. Movenze e finalità simili ha l’Omelia XIV, che riprendendo motivi già presenti nei discorsi sul digiuno, illustra i danni a cui porta l’eccesso del vino. Occasione del discorso, però, sono questa volta degli spettacoli serali di dubbio gusto che infestano la città. La descrizione dei viziosi è particolareggiata e costruita ad arte, come nel caso degli iracondi dell’Omelia X, degli invidiosi dell’Omelia XII e dei ricchi delle Omelie VI e VII: tutti accomunati da una malattia che attanagla l’anima, la passione viene psicosomatizzata secondo uno schema assai frequente nella letteratura filosofica di età ellenistica e imperiale (lo schema è frequentissimo, e si ritrova, ad esempio, in Cicerone, Seneca, Plutarco, Gregorio Nazianzeno e molti altri).
Basilio era già vescovo, probabilmente, anche al momento della composizione dell’Omelia X sul problema dell’ira (di per sé molto tradizionale e in linea con le opere analoghe di estrazione stoica e patristica, come testimoniano il De ira senecano e il carme I, 2, 25 del Nazianzeno, coi quali è possibile istituire paralleli formali e tematici praticamente ovunque). È dello stesso periodo anche l’Omelia XXI, forse pronunziata a Samosata, o meglio a Satala, in Armenia, allora visitata dal vescovo. A giudicare dal tono, dalla ripetitività degli argomenti e dalla forzatura con cui viene innestata la seconda parte relativa ad un incendio avvenuto fuori da una chiesa, è verosimile che la maggior parte del testo sia stato improvvisato e, probabilmente, molto poco rielaborato.
Oggetto dell’Omelia IV, ultimo discorso morale della serie, è invece il rendimento di grazie. Strettamente connessa alla V Panegirico per Giulitta, il discorso, che presenta inoltre spunti di carattere consolatorio, percorre da vicino l’asserzione parenetica paolina di essere sempre lieti, di pregare ininterrottamente e di rendere sempre grazie (1 Ts 5, 16-18). Fu pronunziata in occasione del martyrium della santa nel 372.
Le Omelie XV, XVI e XXIV
Chiudono il cerchio le Omelie XV, XVI e XXIV tutte di natura esegetica o dogmatica. La prima, brevissima rispetto al resto della produzione, si articola in tre capitoli e ha l’aspetto di una semplice professione di fede, esposta all’uditorio abituale di Cesarea, senza un vero e proprio spunto scritturistico. L’Omelia potrebbe essere stata una sorta di risposta a una questione sottoposta da parte dei fedeli alla sapienza del vescovo. L’estrema brevità dell’argomentazione sembra risiedere nel fatto che il padre non amasse particolarmente parlare in pubblico di temi teologici e dottrinari così importanti e difficili da argomentare (e lo rivelano anche l’estensione delle Omelie XVI e XXIV), data peraltro, come Basilio sostiene nel capitolo primo, la pochezza della parola umana rispetto alla sublimità irraggiungibile di Dio. E, rivolgendosi a un popolo di cristiani non troppo dotti e informati nei dogmi ortodossi, egli non fa uso di quelle formule trinitarie che, al contrario, si leggono frequentemente nelle opere, di tutt’altro spessore esegetico, Sullo Spirito Santo e Contro Eunomio. Basilio si limita, infatti, a sottolineare l’incomprensibilità totale di Dio, avvalendosi di una teologia negativa molto semplice e poco tecnica, quale una normalissima allocuzione in chiesa poteva richiedere. Meno estesa ma sicuramente legata alla liturgia della giornata in cui venne pronunziata, è l’Omelia XVI, dedicata ad un’esegesi attenta del prologo giovanneo. Ivi il Padre sottolinea fin da subito la portata universale delle parole dell’evangelista, fondamento maestro per la costruzione del dogma trinitario. Mancanza di terminologie tecniche e di ardua comprensione, nonché l’insegnamento impartito all’uditorio ad allontanare l’arianesino impiegando la sola Scrittura, lasciano immaginare una genesi simile a quella del testo precedente. Ultima è l’Omelia XXIV, un discorso totalmente teologico teso a demolire le opinioni eretiche dei sabelliani, degli ariani e degli anomei in materia dello Spirito e della sua divinità. Degna di nota, in questo testo, è l’assenza del vocabolo «ipostasi», accuratamente sostituito da «persona», e l’impiego del verbo tecnico «procedere», desunto da Gv 15, 26 in riferimento all’origine dello Spirito. Allo stesso modo, si nota la presenza del concetto di uguaglianza di gloria e onore di cui gode lo Spirito nei confronti delle altre due persone trinitarie, sviluppato più approfonditamente nel trattato Sullo Spirito Santo. Sono qui esposti i principi della divinità dello Spirito, unito al Padre e al Figlio, e quindi non estraneo all’essenza divina. È in un contesto tanto delicato come questo che è opportuno contestualizzare l’impiego del verbo «procedere», poiché, sostituendo «generare», si possa risolvere più facilmente il problema inerente la (non) creazione dello Spirito, e il suo procedere dal Padre. La datazione del testo sembra, dunque, aggirarsi verso gli ultimi anni della carriera di Basilio, quando ormai il pericolo ariano era lontano e non poteva più aggredire quell’ortodossia di cui il Cappadoce è stato portavoce per tutto il suo impegno ecclesiastico.
Conclusione
I diciotto discorsi qui riassunti nelle loro caratteristiche salienti attestano ed esemplificano dunque nel modo migliore la reale e costante attività di predicazione da parte del vescovo di Cesarea destinato a diventare il ‘Grande’ della tradizione cappadoce: precetti ed esortazioni a pratiche di vita cristiana, condanna del vizio, elogio della virtù sono soltanto un fugace abbozzo della numerosità di spunti che questi testi continuano a proporre all’uomo contemporaneo, anche a distanza dei tanti secoli che da essi lo separano.
0 commenti