Che senso ha il Credo?

Probabilmente per i frequentatori occasionali, che partecipano a una messa per speciali ricorrenze, le formule usate nel Credo si confondono con le altre ascoltate durante la liturgia. Ma mi domando: i fedeli praticanti che percezione hanno del Credo? Che valore annettono alle parole che pronunciano? Hanno davvero un senso per loro? Si è consapevoli del fatto che il Credo vuole esprimere il contenuto più intimo della fede, che, per i cristiani, dovrebbe essere sia una fede comunitariamente condivisa sia una fede personale che si incarni nel vissuto?

C’è di che dubitarne. Non a caso nella seconda metà del secolo scorso si è sviluppato un vivace dibattito teologico, che continua, sulla necessità di nuove formulazioni di fede per l’umanità di oggi. Il tema è importante perché coinvolge l’irrilevanza progressiva della prospettiva di fede nel mondo contemporaneo, la necessità di ri-dire il messaggio evangelico in termini che suscitino un desiderio esistenziale, questioni che, peraltro, vanno anche al di là della stessa antica formulazione del Credo. Per quanto riguarda quest’ultimo, tuttavia, lo sforzo di rendere la fede viva e fondamentale per la vita difficilmente può passare attraverso nuove formule che sostituiscano o integrino il Credo condiviso da tutte le confessioni cristiane, detto Niceno-Costantinopolitano, perché promulgato nel lontanissimo Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381 d.C. Difatti anche formule nuove risulterebbero, a decenni di distanza, legate a un’epoca, a una teologia, a un pensiero storicamente determinati, esattamente come il Credo che si pronuncia ora nelle Chiese. Senza contare l’ulteriore difficoltà di trovare parole che possano avere un accordo ecumenico, essenziale per l’attuale sensibilità diffusa.

 

La storia aiuta…

C’è però una via per rendere comprensibile, e anche appassionante, il Credo a chi abbia interesse: conoscere la storia che ha portato a certe formulazioni, gettare uno sguardo all’origine di tutto, a quel primo kerygma che avrà avuto diverse formulazioni, ma che noi leggiamo come è riferito da Paolo, che lo ha ascoltato e a sua volta lo ha trasmesso ai fedeli di Corinto: «a voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1Cor 15,3-5). Morte e resurrezione sono al centro di questo messaggio, come pure, per ben due volte, l’appello alla Scrittura ebraica, a quella storia considerata guidata da Dio che i seguaci dell’evangelo vedevano compiersi in Gesù. Questi elementi fondanti tornano nei diversi Simboli di fede che si susseguono negli anni e secoli successivi, alcuni dei quali giunti sino a noi, quali il Simbolo Romano e quello di Nicea del 325, del quale il Credo niceno- costantinopolitano vuole essere insieme sviluppo e conferma. A proposito, ora ho parlato di Simbolo di fede: il termine, se guardiamo all’etimologia, è ancora più efficace di Credo. Sym-ballein (donde il termine simbolo) in greco significa “gettare insieme”: il simbolo era innanzitutto un segno fisico di riconoscimento, ottenuto spezzando in due un oggetto (per esempio una piastrina) in modo che il suo significato risultasse dal ricongiungimento delle due metà. Il simbolo dunque, anche in senso metaforico, è ciò che serve a tenere uniti, a manifestare un legame, una volontà concorde, un’amicizia, un amore.

 

Il Credo e le parole umane

Ma rispetto ai primi Simboli di fede, come è ‘fatto’ il Credo niceno-costantinopolitano? Da un lato la componente storica è ancora più precisa che nella formulazione tramandata da Paolo – infatti si dice che Gesù patì «sotto Ponzio Pilato» – , la parola della Scrittura ebraica e dell’annuncio evangelico sono fortemente attestati, a partire proprio dall’ iniziale proclamazione di fede in un Dio unico che è Padre – il Padre della preghiera di Gesù – e creatore del cielo e della terra, con allusione all’inizio di Genesi, proseguendo poi con l’annuncio di Gesù Cristo “Signore”; d’altro lato, alcune parti parlano un altro linguaggio, non più biblico ed evangelico, in particolare quanto all’affermazione «generato, non creato, consustanziale al Padre», dove il peso maggiore sta nel termine “consustanziale”, quell’ homoousios, che reca in sé una delle parole più evocative e pregnanti della filosofia greca: ousia (sostanza). L’homoousios, inserito a Nicea per contrastare l’insegnamento del prete Ario, che la maggior parte dei vescovi presenti considerava erroneo, divenne a sua volta un fattore di divisione e conflitto tra Oriente e Occidente e all’interno dell’Oriente stesso, prima di essere interpretato, grazie al pensiero di alcuni teologi eccellenti (i tre Padri Cappadoci: Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa), in un modo che nel Concilio di Costantinopoli fu considerato accettabile, nel senso, cioè, che Padre, Figlio e Spirito Santo sono tre ipostasi (= persone) e una sola ousia (sostanza). È indubbio che questo termine come anche altri elementi del Credo recano l’impronta della cultura greco-ellenistica, che era la cultura dei partecipanti ai Concili di allora. Questo oggi comporta la necessità di far comprendere che il mistero di fede si esprime in linguaggi storicamente determinati, distanti dai linguaggi odierni o da quelli di altre culture: ciò non dovrebbe costituire una sorpresa per chi crede che Dio si sia incarnato, cioè si sia autolimitato nella contingenza di un uomo vissuto in una determinata epoca, in un determinato ambiente, in una determinata etnia e in un determinato genere. Tanto più il linguaggio umano che intende parlare di Dio è limitato, anzi è frutto di una faticosa ricerca di accordo. Praticamente ogni parola del Credo porta con sé una vicenda di conflitto e di ricomposizione. Una delle frasi più incisive, che afferma l’eternità del regno di Cristo («e il suo regno non avrà fine») fu inserita già in alcuni Simboli che precedettero il 381, al fine di contrastare il pensiero di Marcello di Ancira, strenuo difensore del Credo niceno ma sostenitore di alcune tesi ardite che non piacquero alla maggioranza dei vescovi specie orientali. Il Credo, poi, come lo leggiamo in Occidente, a proposito dello Spirito, recita «che procede dal Padre e dal Figlio»: ebbene questa formulazione, nell’atto stesso di confermare la Trinità, ci ricorda anche quanto siano pericolose le modifiche a un Credo conciliare, visto che fu proprio l’aggiunta, fatta dagli occidentali, dell’espressione «e dal Figlio» (Filioque) a costituire motivo di scandalo, di divisione e di una riprovazione ancora non sopita da parte della chiesa greca.

 

 

Un’impresa editoriale per comprendere modernamente il Credo con le parole degli antichi

Parlare di Dio è difficile, eppure il desiderio di parlare di Dio e di parlare a Dio è un bisogno ancora presente negli esseri umani. Il Credo esprime questo bisogno. Città Nuova mette ora a disposizione dei lettori una Collana che in 5 volumi spiega il Credo con le voci degli autori antichi: alcuni di questi autori sono vissuti prima di quel fatidico 381, ma la loro riflessione ha preparato le idee contenute nel Credo. I volumi sono curati, ciascuno, da validissimi studiosi italiani che si sono adoperati precisamente nell’operazione che ho sopra descritto: far comprendere l’affascinante storia di ogni singola formula del Credo. I blog che seguiranno diranno qualcosa di molto interessante in proposito.

 

Emanuela Prinzivalli

 


Emanuela Prinzivalli

Emanuela Prinzivalli è professore Ordinario di Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso La Sapienza Università di Roma e dirige il Dipartimento di Studi storico-religiosi. Tra le sue molte pubblicazioni ricordiamo l'edizione critica dei Salmi 36, 37, 38 di Origene nella collana Sources Chretiennes e il Commento ai Salmi di Didimo il Cieco. È inoltre autrice, insieme a Manlio Simonetti, dell'Antologia e storia della letteratura cristiana antica.

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