Padre di un Figlio

La prima caratteristica che viene attribuita a Dio nel Credo Niceno-Costantinopolitano è quella di essere “Padre”. Tale definizione non è estranea alla tradizione veterotestamentaria, basti pensare ai capitoli 63-64 del Libro del Profeta Isaia, ma si colloca nella spiritualità giudaica come uno tra gli epiteti di Dio, e neppure il preferito. La novità cristiana si nutre di quell’esperienza peculiare che Gesù stesso ha vissuto e che è testimoniata dai vangeli in maniera univoca e, proprio per la sua discontinuità, verosimilmente autentica: Gesù si dichiara figlio di Dio, si dice generato e inviato da Lui, lo invoca e insegna ad invocarlo come Padre, anzi come Abbà.

Il termine Padre ci introduce quindi subito nella dimensione trinitaria della fede cristiana, impedendoci di considerare questo primo articolo di fede in modo isolato e a sé stante. Il Padre per essere tale deve essere “padre di un figlio”; il suo stesso nome, di natura relazionale, contiene in sé l’esistere del Figlio, andando a caratterizzare, prima ancora dell’esperienza umana di Gesù, la natura stessa di Dio, perché dice nello stesso tempo unità di natura e distinzione di persone.

Il Padre è senza inizio e senza generazione ed è pensato sempre padre; da lui, immediatamente, senza nessun intervallo, è pensato insieme al Padre anche il Figlio unigenito.

(Gregorio di Nissa, Contro Eunomio 1, 378)

 

Padre e Figlio, unico Dio

La conciliazione tra l’unità di Dio e la sua differenziazione trinitaria è stata una delle questioni più importanti e difficili da affrontare nei primi secoli cristiani. Da una parte essa ha portato, seguendo la tradizione giudeo-ellenistica alessandrina, alla formulazione della Teologia del Logos, che pone le tre persone trinitarie in scala discendente dando alla seconda persona, quella del Logos-Figlio, il ruolo di mediatore, che ha creato e governa il mondo, si rivela prima nelle teofanie veterotestamentarie e poi in maniera definitiva in Gesù Cristo, permettendo quel rapporto tra il Dio trascendente e la materia altrimenti impossibile. Dall’altra, anche in contrasto con il pericolo subordinazionista di tale visione, abbiamo il diffondersi, sia in oriente che in area romana, della teologia monarchiana (o modalista, o sabellianista) che rivendica l’assoluta unità e unicità di Dio per cui le tre persone trinitarie non sarebbero altro che modi, espressioni, energie dell’unico Dio Padre che si rivela in tre modi diversi ma senza una vera differenziazione personale.

Siamo all’inizio del IV secolo quando il presbitero alessandrino Ario, nel tentativo di precisare il rapporto tra Padre e Figlio, arriva a negare la sua coeternità col Padre, l’unico ad essere Dio in senso assoluto, perché l’unico ad essere eterno e ingenerato. Il Concilio di Nicea introdurrà in risposta il termine homoousios (consustanziale), non scritturistico e non privo però di ambiguità e soggetto a varie interpretazioni. Ci vorrà la riflessione cappadoce e un’esplicita precisazione nel Concilio di Costantinopoli per arrivare a una chiarificazione in grado di mantenere insieme l’unicità della sostanza (ousia) divina, basata sull’unica divinità, e la differenziazione delle persone (ipostasi), basata sulla loro relazione, in quanto appunto Padre, Figlio e Spirito santo e santificatore.

È, per così dire, indistinta, la sostanza della Trinità, ma la Trinità è distinta, incomprensibile e inesprimibile. Abbiamo appreso, infatti, che vi è una distinzione tra il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo (Mt 28,19), non una confusione; una distinzione, non una separazione; una distinzione, non una pluralità. Abbiamo appreso, dunque, che per un divino e mirabile mistero il Padre sussiste sempre, sempre sussiste il Figlio, sempre lo Spirito Santo. […] Conosciamo la distinzione, ma ignoriamo i segreti; non indaghiamo le cause, custodiamo i misteri. (Ambrogio, La fede 4, 8, 91)

 

Una filialità donata

Uniti al Figlio, anche i cristiani possono chiamare Dio Padre; ciò che Gesù è per natura eterna, gli uomini lo diventano per grazia e per adozione. Chiamare Dio col nome di “padre” rende l’uomo partecipe della vita intima della Trinità; attraverso lo Spirito santo donato nel Battesimo ciascun uomo entra nella comunione che lega le persone trinitarie e vive così un’autentica esperienza spirituale. Questa figliolanza ricevuta nel Battesimo è chiamata a una conformazione sempre maggiore al Figlio, perché il Padre possa riconoscere nel cristiano quell’identità filiale che gli ha donato.

Ma quanto grande è l’indulgenza del Signore, quanta l’abbondanza del suo amore e della sua bontà per noi! Ha voluto che noi pregassimo al cospetto di Dio così da chiamare il Signore «Padre» e che ci considerassimo figli di Dio, allo stesso modo che Cristo è Figlio di Dio! Nella preghiera nessuno di noi oserebbe appropriarsi di questo nome, se Egli stesso non ci avesse permesso di farlo. Perciò, fratelli carissimi, dobbiamo ricordare ed essere consapevoli che, quando chiamiamo Dio «Padre», dobbiamo comportarci come figli di Dio, cosicché come noi ci rallegriamo di avere Dio come Padre, anche Lui possa ugualmente essere compiaciuto di noi. (Cipriano, La preghiera del Signore 11)

Chiara Curzel


Chiara Curzel

Religiosa delle Figlie del Cuore di Gesù, è docente stabile per la Cattedra di Scienze Patristiche presso l’Istituto di Scienze Religiose “Romano Guardini” di Trento e docente incaricato presso l’Istituto Patristico Augustinianum a Roma. Si occupa principalmente di studi relativi ai Padri Cappadoci; tra le sue pubblicazioni: Studi sul linguaggio in Gregorio di Nissa (Roma 2015).

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