Il Figlio e il Padre
Nel Credo niceno-costantinopolitano, dopo la sezione su Dio Padre si apre quella sul Figlio, la lunga sintesi cristologica che occupa la maggior parte di questo simbolo di fede. Il Figlio viene trattato prima nella sua dimensione eterna, come unigenito del Padre, inclusa la sua funzione cosmogonica; quindi si riassumono le modalità della sua incarnazione, in ottica soteriologica, culminando nell’attestazione di fede nella sua resurrezione e ascensione, nonché nel suo ritorno futuro per instaurare il regno che «non avrà fine».
Quando il Credo descrive il Figlio nella sua preesistenza, «generato dal Padre prima di tutti i secoli», lo definisce non solo «Dio vero», ma anche «consustanziale al Padre [homooúsios tô patrí]». Si tratta di un punto tra i più difficili e controversi nella storia delle dottrine e degli avvenimenti nel cristianesimo antico. A differenza di pressoché tutti gli altri termini impiegati nel Credo, homoousios (“consustanziale”) era un concetto attinto non dalle Scritture, ma dalla speculazione filosofica. Quando esso compare ufficialmente nel Credo proclamato dal Concilio niceno del 325 d.C., segna un’innovazione decisiva: per la prima volta un’importante affermazione dottrinale veniva espressa in un simbolo di fede mediante una formulazione che non era puramente biblica. Ma perché si era insistito su questo concetto, e quali sviluppi storico-dottrinali avevano condotto a ciò?
Per articolare una risposta è necessario fare una piccola premessa sul Credo niceno-costantinopolitano. Il nome composto è convenzionale, ma appropriato: in occasione del Concilio di Costantinopoli del 381 d.C. venne redatto un simbolo (che definiamo “C”) che, pur basato su una formula di fede (battesimale) non identica alla lettera di quella che sta alla base del simbolo niceno (“N”), cionondimeno era ispirato alla dottrina di N e per questo, sebbene vi aggiungesse la sezione sullo Spirito Santo e operasse alcune modifiche, non venne inteso né percepito come un simbolo diverso e distinto da N, ma come una conferma e un’integrazione di quello. Anche per questo motivo, C non ebbe “fortuna” autonoma fino al 451, quando al Concilio di Calcedonia troviamo la prima chiara attestazione del Simbolo niceno-costantinopolitano.
In cosa consistono le modifiche di C per quanto concerne la dottrina del rapporto tra Padre e Figlio? Quali eventi stanno all’origine di N e poi di C? Perché venne introdotto l’homoousios, e quali dibattiti generò?
La crisi ariana e il Concilio di Nicea
Rispondiamo partendo dagli eventi all’origine del primo concilio niceno. La cosiddetta “controversia ariana” prende il nome da Ario, un presbitero libico vissuto tra la seconda metà del III secolo e la prima metà del IV, attivo ad Alessandria d’Egitto dove le sue idee iniziarono a diffondersi tra il primo e il secondo decennio del IV secolo. Ario accentuava alcuni aspetti della teologia trinitaria subordinazionista del grande teologo alessandrino Origene (c. 185-254 d.C.). La Trinità origeniana può essere schematizzata in modo “verticale”: il Padre è superiore al Figlio che è superiore allo Spirito. “Radicalizzando” Origene, Ario riteneva che solo il Padre fosse vero Dio, mentre il Figlio era un “dio secondo”, la prima e più eccellente delle creature, l’unica creata direttamente dal Padre, che gli aveva poi affidato la creazione del cosmo. Per Ario, Dio è necessariamente ingenerato, dunque il Figlio – se è generato – non è pienamente Dio, ma una creatura, pur perfetta e divina: un dio inferiore, che non era sempre esistito ab aeterno e che ha ousia diversa da quella del Padre. La preoccupazione principale di Ario era preservare l’unicità di Dio.
Le tesi di Ario accesero una controversia che produsse già prima di Nicea alcune condanne locali del presbitero libico, non risolutive. L’ampliarsi della crisi indusse l’imperatore Costantino a convocare un concilio ecumenico, cioè rivolto all’intera cristianità, il primo della storia: il Concilio di Nicea del 325, a cui parteciparono quasi trecento vescovi. Il Concilio condannò le tesi di Ario e proclamò la consustanzialità di Padre e Figlio: questi è homoousios, partecipa della stessa sostanza del Padre. Possiamo ora capire perché venne introdotto questo concetto: i Padri conciliari discordavano su alcuni aspetti, ma ciò su cui vi era assoluto consenso era che la consustanzialità fosse l’unica dottrina del tutto inaccettabile per gli esponenti ariani, e dunque un ottimo “sigillo” antiariano. I teologi del partito niceno reagirono ad Ario specificando il significato della generazione del Figlio, da intendersi come eterna, e non sopraggiunta in un dato momento (“non c’è stato un tempo in cui il Figlio non era”). Inoltre, il Figlio non è creatura, ma crea:
Tutte le cose prodotte, non esistevano e sono state fatte. […] Il Figlio invece è (colui) che è e Dio al di sopra di tutto (Rm 9, 5), come il Padre. Anche questo è stato dimostrato. Egli non è fatto, ma fa. Non è creato, ma crea e fa le opere del Padre. […] Chi non vede che il Figlio è consostanziale al Padre, dato che il Figlio non ha nulla che lo renda simile alle creature, mentre tutto ciò che è del Padre è anche del Figlio? […] Questo fu il pensiero dei Padri che nel Sinodo di Nicea professarono che il Figlio è “consostanziale” e “della sostanza del Padre” (Atanasio, Lettere a Serapione 2, 4, 1-2; 2, 5, 1-2).
Della stessa sostanza? I dibattiti continuano
I teologi antiariani furono impegnati anche a chiarire il significato dell’homoousios, della consustanzialità tra Padre e Figlio, un tema che per decenni suscitò dibattiti e divisioni. La formula di N, infatti, se era perfettamente funzionale in senso antiariano, si prestava però ad ambiguità. In particolare, come si vede da uno degli anatematismi che seguono il Simbolo, identificava in pratica il concetto di ousia con quello di ipostasi (che in Oriente indicava la sussistenza individuale, e non la sostanza), non chiarendone la distinzione. Padre e Figlio, così, potrebbero “confondersi”, fino al rischio di farne una sola persona (monarchianesimo). Di qui la divisione tra fazioni e il riaccendersi della controversia: alcuni intendevano il Figlio come della stessa ousia del Padre (omousiani o niceni), altri come di ousia simile (omeousiani, da homoiousios), altri ancora preferivano non parlare di ousia e limitarsi ad affermare genericamente che il Padre e il Figlio erano “simili in tutto secondo le Scritture” (omei). Gli ariani radicali vennero invece chiamati anomei, in quanto ritenevano il Figlio dissimile dal Padre quanto all’ousia.
I numerosi Concili e Sinodi locali susseguitisi tra il 325 e il 381 mostrano traccia di questi dibattiti. Dal 360 circa si aggiunse anche la controversia sullo Spirito Santo. La fase successiva al Concilio niceno vide diversi capovolgimenti di fronte: basti pensare ad esempio al fatto che lo stesso imperatore Costantino si avvicinò all’arianesimo, oppure al caso di Atanasio, di osservanza nicena, cinque volte esiliato e reintegrato al seggio episcopale.
Da Nicea a Costantinopoli
L’approdo in un certo senso “finale” della controversia – almeno dal punto di vista del rapporto tra Padre e Figlio – è il Concilio di Costantinopoli I, convocato nel 381 dall’imperatore Teodosio. Qui si ribadì la consustanzialità tra Padre e Figlio, e questa venne estesa allo Spirito Santo. Si chiarì però che identità di essenza non comporta confusione o identità tra le persone: la formula adottata fu “una ousia, tre ipostasi” (non letteralmente presente nel Credo, ma esplicitata in una dichiarazione aggiuntiva). Dunque, il Simbolo di Costantinopoli del 381, rispetto a Nicea, aggiunge la divinità dello Spirito Santo (sebbene questa non venga affermata esplicitamente) ed elimina la problematica identificazione tra ousia e ipostasi. La teorizzazione della distinzione di ousia e ipostasi era stata sviluppata dai Padri cappadoci, ai quali – come ha scritto Manlio Simonetti, uno dei massimi specialisti della controversia ariana – si devono gli spunti più originali di teologia trinitaria, nel corso di tale fase. In particolare, Basilio di Cesarea (che morì un paio d’anni prima del Concilio) introdusse la formula “una ousia, tre ipostasi”. Basilio fu fondamentale sul piano politico, oltre che su quello teologico: riuscì a creare compattezza tra i vescovi orientali, divisi a causa delle precedenti controversie. Anche se non partecipò al Concilio del 381, il suo impatto su tale tappa fondamentale nella storia del cristianesimo fu grande.
Questo termine [homoousios] corregge anche l’errore di Sabellio: rimuove infatti l’idea dell’indistinzione delle ipostasi e introduce la piena nozione delle persone. Nulla, infatti, può essere consustanziale a se stesso, ma lo è rispetto a un altro. Il termine, perciò, è buono e pio, definendo le proprietà specifiche delle ipostasi e insieme suggerendo l’indistinzione della natura (Basilio di Cesarea, Lettera 52, 3).
Andrea Annese
Per approfondire
Dossetti G.L., Il Simbolo di Nicea e di Costantinopoli. Edizione critica, Herder, Roma 1967.
Prinzivalli E. (dir.), collana “Il Credo commentato dai Padri”, 5 voll., Città Nuova, Roma 2020-2021.
Simonetti M., La crisi ariana nel IV secolo, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 1975.
Id. (a cura di), Il Cristo. Volume II. Testi teologici e spirituali in lingua greca dal IV al VII secolo, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori, Milano 1986.
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