La vittoria e il regno eterno del Figlio
La fede nella risurrezione del Figlio di Dio nella riflessione patristica si coniuga spesso nel segno della vittoria, trionfo sul dominio della morte e sul demonio. È un trionfo ancora più grande perché ottenuto nella carne ove s’era consumato il peccato e il male aveva vinto; con le stesse armi Cristo vince sulla croce:
Opera l’abolizione della tirannia del maligno, che si è impossessato di noi con l’inganno, assumendo come arma contro di esso la carne vinta in Adamo e vincendo per mostrare che essa, conquistata prima per la morte, ha catturato chi l’ha catturata e distrutto con la morte naturale la vita di quello, ed è divenuta per lui veleno, affinché vomiti tutti quelli che aveva divorato avendo forza come colui che possedeva il potere della morte; per il genere umano invece vita, che solleva come una pasta tutta la natura verso la resurrezione della vita.
Massimo il Confessore, Interpretazione del Padre nostro.
Ambrogio ricorda come, salendo sulla croce, Gesù si spogli delle vesti regali, della sua dignità divina, e muoia come uomo e come malfattore, prendendo su di sé la condanna dell’umanità. Colui che il giorno del giudizio sarà re vittorioso muore di una morte indegna, come un anonimo condannato. Nella vittoria del Cristo tutta l’umanità trionfa:
Cristo è salito su la nostra croce, non su la sua. E quella non fu la morte della divinità, ma come quella di un uomo. Per cui Egli stesso gridò: Dio mio, Dio mio, guardami! Perché mi hai abbandonato? Stupendo il fatto che, ormai sul punto di salir su la croce, Egli depose le vesti regali. Questo perché tu dovevi sapere che ha sofferto in qualità di uomo, non in qualità di Dio sovrano, sebbene Cristo sia l’una e l’altra cosa; che è stato appeso alla croce come uomo, non come Dio. Ma i soldati, che non sono Giudei, sanno in quale momento, e quali vesti convengano al Cristo. Egli, al giudizio, sarà presente come un vincitore, però è venuto alla passione come un colpevole senza nome. E poiché adesso abbiamo ormai contemplato il trofeo, il trionfatore salga sul suo cocchio, e appenda non ai tronchi d’albero, né alle pesanti quadrighe il bottino guadagnato su di un nemico mortale, bensì unisca al suo patibolo trionfale le spoglie dei prigionieri strappate al mondo. Qui non scorgiamo popoli dalle braccia incatenate dietro la schiena, […] né l’estensione della vittoria indicata dai confini dei vari territori; vediamo invece i popoli delle nazioni in giubilo, conquistati non per il supplizio ma per il premio; i re che adorano nella libertà dello spirito; le città che si sono arrese con volontario ossequio e le immagini delle piazzeforti restaurate e abbellite […]. L’unico trionfo di Dio, la croce del Signore, ha fatto sì che ormai tutti, si può dire, gli uomini trionfassero.
Ambrogio, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 10, 107-109.
La redenzione dell’umanità
Parte essenziale di tale vittoria è per l’umanità redenta una nuova baldanza nell’affrontare la morte e l’inedita speranza di rincontrare i cari defunti, scrive Atanasio:
Una volta, prima della divina venuta del Salvatore, tutti piangevano i morti come se fossero perduti; mentre da quando il Salvatore ha risuscitato il suo corpo, la morte non fa più paura, ma tutti quanti credono in Cristo la calpestano, come se non fosse nulla, e preferiscono morire piuttosto che rinnegare la fede in Cristo, perché veramente sanno che morendo non periscono, ma continuano a vivere e divengono incorruttibili mediante la resurrezione. Il solo ad essere rimasto veramente morto, adesso che le pene della morte sono state eliminate, è il diavolo che prima assaliva perversamente la morte.
Atanasio, L’incarnazione del Verbo, 5, 27.
Nonostante la vittoria di Cristo sia sempre più celebrata in termini bellici e trionfali, i Padri continuano a ricordare che Cristo annuncia un regno che non è di questo mondo, ma è “peregrinante nel mondo”, come scrive Agostino. Tale regno è prefigurato da quello di Salomone, il cui nome, “il pacifico”, preannuncia il regno di pace, giustizia e sapienza di Cristo. A tale regno escatologico sono chiamati a partecipare gli apostoli e tutti i credenti; così, Ilario di Poitiers spiega l’eredità eterna promessa ai credenti in Cristo, che acquisiscono in lui dignità regale:
Hai mostrato anche in vista di quale speranza sarebbe stato protetto all’ombra delle ali di Dio, dicendo: Hai dato l’eredità a quanti temono il tuo nome. Aggiungerai giorni ai giorni del re; i suoi anni, di generazione in generazione. Rimane in eterno al cospetto di Dio [Sal 61, 5-7]. Questa infatti è l’eredità del Santo: la vita, l’incorruttibilità, il Regno e la dimora eterna con Dio. Non solo per Israele è stata scritta questa eredità, ma per tutti coloro che temono il nome di Dio. [..] Il Signore ricorda così agli apostoli questa rinascita: In verità vi dico: voi che mi avete seguito nella nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, anche voi siederete su dodici troni, per giudicare le dodici tribù d’Israele. Ha indicato perciò il tempo di questa nuova nascita, e fino ad allora ai giorni dei giorni saranno aggiunti gli anni del re. Del resto, egli rimarrà in eterno al cospetto di Dio, una volta che tutti i redenti saranno stati assunti come cittadini del regno dei cieli e saranno coeredi dell’eternità, quando egli li consegnerà a Dio Padre, come membri del Regno.
Ilario di Poitiers, Commento ai Salmi.
Parole come quelle di Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (15, 28) – quando ogni cosa gli sarà stata sottoposta, allora anche il Figlio stesso sarà sottoposto a colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti – potevano dar adito a un’interpretazione della missione redentiva del Figlio come contingente, esaurita nel tempo della storia, e leggere quindi la figura di Cristo come una modalità transeunte, e quindi provvisoria, dell’unica potenza del Padre. Così, per rispondere alle dottrine di Marcello d’Ancira (285 circa – 374 circa), che assegnava un termine al regno di Cristo, corrispondente alla fine del mondo, quando il suo compito di salvezza sarebbe stato concluso, il concilio di Costantinopoli del 381 aggiunse nel Credo una postilla che esplicitasse il regno eterno del Figlio. Cristo regna quindi senza fine nell’eterno atto di amore di prendere su di sé l’umanità e offrirla al Padre. Così, il regno eterno del Figlio necessita e include la sua volontaria sottomissione d’amore al Padre, che Gregorio di Nissa spiega così:
È nello stesso senso che il Signore è descritto da Paolo come mediatore fra Dio e l’umanità; perché lui che dimora nel Padre ed è venuto ad essere tra gli uomini compie in questo la sua opera di mediazione: fa tutti uno in lui e in lui uno con il Padre. Infatti è questo che il Signore dice nel vangelo, pregando al Padre: che siano una cosa sola, Padre, come tu in me e io in te, così che anche loro siano in noi.
Gregorio di Nissa, La sottomissione del Figlio.
Maria Fallica
0 commenti