Il Logos divino: dal Prologo giovanneo agli apologisti
Ho Logos sarx egeneto, «il Verbo si fece carne». Questo versetto del Vangelo secondo Giovanni (Gv 1, 14) segna indelebilmente la riflessione cristologica dei secoli a venire, impegnata a comprendere in che modo quel Logos, che sempre secondo il Prologo giovanneo «era in principio presso Dio» ed era egli stesso Dio (vv. 1-2), poteva aver preso dimora sulla terra, incarnandosi in un uomo, esplicitamente identificato dal Prologo con «Gesù Cristo» (v. 17). Se questo potentissimo testo evangelico dello scorcio tra I e II secolo ha impegnato per due millenni la riflessione teologica, filosofica e artistica in ogni modo possibile – in una memorabile scena, il Dottor Faust tratteggiato da Goethe è impegnato a tentare di tradurre il primo versetto di Giovanni, in difficoltà nel rendere il senso che ha lì il termine greco logos –, la riflessione cristologica dei primi secoli è partita da una domanda chiave: se Gesù, il christos, non è solo un uomo ma è il Dio Logos preesistente incarnatosi, come tenere insieme questa affermazione con la fede nell’unico Dio? Per dirla altrimenti: qual è il rapporto tra il Figlio e il Padre? La questione arriverà fino alla crisi ariana ed oltre, e si intreccia con quella del rapporto tra la natura umana e quella divina del Figlio. In questa sede ci soffermiamo soprattutto sugli sviluppi della “teologia (o cristologia) del Logos” precedenti alla controversia ariana.
Il Prologo giovanneo è appunto il testo chiave, sebbene non l’unico, che funge da fonte scritturistica per questa concezione, la cristologia del Logos o (con dizione tedesca) Logoschristologie. Questa concezione valorizza la definizione di Cristo come “Logos” di Dio e, combinando le fonti bibliche con la concezione medioplatonica di un “secondo dio” che fungeva da intermediario tra il Dio sommo e il cosmo, descrive il rapporto tra Padre e Figlio in questo modo: il Figlio è il Logos-Sapienza di Dio che, immanente ab aeterno nel Padre, viene da questi generato come Figlio personalmente sussistente. È questo Logos ad assumere, per volontà del Padre, la funzione creatrice e provveditrice del cosmo, nonché la funzione rivelatrice (attraverso di sé, fa conoscere il Padre) e redentrice, prima tramite le teofanie veterotestamentarie (che questa concezione attribuisce al Figlio), poi mediante la sua incarnazione e morte salvifica. Questa dottrina cristologica viene sviluppata in particolare dai cosiddetti “apologisti” nel II secolo: Giustino, Taziano, Teofilo, Atenagora (e poco oltre anche da Ireneo). Essi distinguevano appunto due aspetti del Logos: il Logos immanente in Dio (Logos endiáthetos) e il Logos proferito (Logos prophorikós), che il Padre emette fuori di sé, generandolo come Figlio, in vista della creazione del cosmo. Il Figlio, quindi, è il mediatore fra Dio e la creazione.
Dio, Padre di tutte le cose, è incontenibile e non si trova in nessun luogo, non esiste infatti un luogo ove cessi di agire. Ma il suo Verbo, per mezzo del quale egli ha creato tutte le cose, essendo sua potenza e sapienza, assumendo la figura del Padre e Signore dell’universo, questi camminava nel giardino nella persona di Dio e parlava con Adamo. Infatti, la stessa Scrittura divina c’insegna che Adamo diceva di aver udito la voce (cfr. Gen 3, 10). Ma la voce che cosa altro è se non il Verbo di Dio che è anche il suo Figlio? E non da unione coniugale, come poeti e mitologi narrano a proposito dei figli degli dèi, ma, come narra la verità, il Logos che esiste da sempre è immanente nel cuore di Dio. E prima che qualcosa esistesse, con questo si consigliava, sua mente e sua prudenza. E quando Dio volle creare quanto aveva deliberato, generò questo Verbo proferito, primogenito di tutta la creazione, e senza privarsi del Verbo, ma avendo generato il Verbo e sempre con il suo Verbo rimanendo unito. […] Il Verbo è Dio e da Dio generato (Teofilo di Antiochia, Ad Autolico 2, 22).
Se questa concezione rilevava chiaramente la divinità e la sussistenza personale del Figlio, essa presentava però delle difficoltà: la distinzione tra i due aspetti del Logos sembrava introdurre due diversi “momenti” in una realtà eterna e atemporale, e soprattutto la cristologia del Logos correva il rischio di essere letta come diteismo (né lo schema teologico subordinazionista che essa implicava era sufficiente a evitare questa critica). Questo Logos subordinato al Dio ingenerato era forse un altro dio separato dal Padre, un “dio inferiore”? Gli apologisti argomentavano che distinzione non vuol dire separazione e che Padre e Figlio erano strettamente legati, ma ciò non convinse i critici che ritenevano che tale cristologia compromettesse l’unicità di Dio.
I dibattiti con i monarchiani
A insistere su quest’ultima, in polemica con la Logoschristologie, furono soprattutto i teologi cosiddetti “monarchiani” del II secolo, di formazione “asiatica” (Asia minore) come i primi teologi del Logos. Per il monarchianesimo di tipo adozionista, Cristo era un semplice uomo, “adottato” poi come Figlio da Dio, che in occasione del battesimo al Giordano gli aveva conferito una particolare dynamis. Per il monarchianesimo che si definisce “sabelliano” o “modalista”, invece, i nomi “Padre” e “Figlio” erano solo modi di agire della divinità, dell’unica vera Persona divina: ne risultava che il Padre stesso aveva patito sulla croce (alcune varianti di questa dottrina cercarono di smussare questo aspetto).
Nacque da qui un dibattito con gli esponenti della cristologia del Logos che si propagò in diversi ambienti del Mediterraneo antico cristiano. Tra II e inizio III secolo furono soprattutto Ippolito (autore del Contro Noeto) e Tertulliano a rispondere, precisando il rapporto tra Padre e Figlio come “persone” distinte, sebbene unite nella natura divina. Ma fu soprattutto il grande teologo alessandrino Origene, nella prima metà del III secolo, a sviluppare la cristologia del Logos nel suo senso più tecnico e raffinato. Origene insistette particolarmente nel rilevare la sussistenza e la distinzione delle tre ipostasi (persone) della Trinità; rispetto agli apologisti, superò la difficoltà insita nel concepire i due aspetti del Logos come due momenti cronologicamente distinti, affermando invece la generazione eterna e continua del Figlio dal Padre, un processo che quindi non ha “inizio” in un tempo definito, anche se il Padre può essere definito arché (principio) del Figlio.
Non è lecito comparare Dio Padre, nella generazione del suo Figlio Unigenito e nel dargli sussistenza, con un uomo o un altro animale che genera. Ma bisogna definire qualcosa che sia degno anche di Dio, cui non si può comparare nulla non solo nella realtà ma neppure nel pensiero, affinché l’intelletto umano possa concepire in che modo Dio ingenerato divenga padre del Figlio unigenito. Questa generazione è infatti eterna e perpetua, così come lo splendore è generato dalla luce. Il Figlio non diviene tale dall’esterno, per adozione dello Spirito, ma è Figlio per natura (Origene, I princìpi 1, 2, 4).
Dalle prime polemiche antiorigeniane al Credo niceno-costantinopolitano
Nuove polemiche investirono l’impostazione origeniana, accusata di triteismo, ed effettivamente subordinazionista (il Padre, per Origene, è autotheos, “Dio-in-sé”, mentre il Figlio semplicemente theos). Sembra che proprio nel contesto di una di queste polemiche emerga quella che è la prima attestazione certa del termine homoousios (consustanziale) – che avrà grande fortuna proprio nel Credo niceno-costantinopolitano – in ambito trinitario: dei monarchiani moderati egiziani accusarono Dionigi di Alessandria di non ammettere che il Figlio fosse della stessa sostanza (ousia) del Padre. Dionigi in realtà fa capire che poteva accettare il concetto, se inteso come compatibile con la distinzione delle ipostasi.
Non è possibile seguire qui in dettaglio tutte le controversie, ma occorre rilevare ancora un ultimo punto fondamentale. La crisi ariana del IV secolo nacque proprio a seguito della radicalizzazione della Logoschristologie origeniana. Ario, infatti, polemizzando con il monarchianesimo, accentuava il subordinazionismo trinitario origeniano (per Origene le tre persone trinitarie erano disposte gerarchicamente: Padre, Figlio, Spirito), ma si potrebbe anche dire: il subordinazionismo insito nella cristologia del Logos. Per Ario, il Figlio era una creatura, sebbene la più eccellente: era un “dio secondo”, che aveva creato il cosmo, ma non era della stessa natura del Padre. In un articolo successivo vedremo meglio origine e sviluppi della controversia ariana e quali furono le posizioni adottate fra il Concilio di Nicea (325 d.C.) e quello di Costantinopoli (381). Nel concludere questa sintesi della cristologia del Logos, possiamo ricordare come gli echi di alcuni suoi assunti fondamentali si trovino ancora proprio nel Credo niceno-costantinopolitano, che li recuperava alla luce delle precisazioni emerse nella speculazione teologica sviluppatasi lungo più di due secoli. Si pensi ad esempio alle proposizioni del Credo sull’identità di natura divina tra Padre e Figlio, su quest’ultimo come «vero Dio» e «Dio da Dio», generato eternamente, nonché al passo sul ruolo creativo del Figlio-Logos («per mezzo del quale tutte le cose sono state create»).
Andrea Annese
Per approfondire
Prinzivalli E. (dir.), collana “Il Credo commentato dai Padri”, 5 voll., Città Nuova, Roma 2020-2021.
Simonetti M., Studi sulla cristologia del II e III secolo, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 1993.
Id., Studi sulla cristologia postnicena, Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 2006.
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