Il Paolo «distruttore» e «fondatore»

Fu realmente Paolo, almeno da quello che possiamo dedurre dalle sue sette lettere oggi considerate autentiche, il «distruttore del giudaismo» (Tertulliano, Adv. Marc. 5.5,1) e il «fondatore del cristianesimo»? Secondo quanto largamente acquisito oggi dalla ricerca sembra di no. Chi fu allora realmente Paolo di Tarso, in particolare in relazione al giudaismo del suo tempo?  Ha senso storicamente parlare dell’evento di Damasco come una conversione dal giudaismo al nascente cristianesimo? Andando con ordine nel tentare di rispondere a queste domande, e soprattutto presentando le ermeneutiche sia antiche che contemporanee dell’Apostolo, il volume ‘Paolo di Tarso, un ebreo del suo tempo’ (G. Boccaccini, G. Mariotti; Carocci 2025) affronta tre nodi fondamentali riguardanti il rapporto di Paolo con il giudaismo: la ricezione antica, la riscoperta contemporanea, le prospettive per una rilettura di Paolo nel giudaismo che ce lo mostra quale un «ebreo apocalittico seguace di Gesù».

 

L’«apostolo addomesticato»

Se da oltre un secolo la ricerca internazionale si sta occupando di riscoprire e delineare il volto di Paolo nel giudaismo si deve al fatto che, nella storia, le parole delle sue lettere siano state utilizzate come libello di ripudio e come arma contro il giudaismo. Ma veramente l’Apostolo si discostò dal giudaismo fino a diventarne un nemico?

È Indubbio che non possiamo sapere quali testi paolini effettivamente circolassero o che rilevanza avessero nelle comunità cristiane, ma ciò che è certo è che dalla metà del II secolo si sviluppò una teologia antigiudaica di matrice cristiana che investì in pieno anche l’ermeneutica paolina. Fin dall’epoca degli eresiologi e degli apologeti, si è cercato di dissociare l’Apostolo e i suoi scritti dai gruppi dei cosiddetti giudaizzanti, dipingendolo spesso con un’immagine antiebraica. Secondo John Gager, il risultato di questo processo ha portato a considerare Paolo un «apostolo addomesticato» (The Origins of Anti-Semitism). Si può affermare che la ricezione di Paolo, già nel II secolo, non fu esente da pretese ideologiche e fu particolarmente influenzata dal dibattito contro quelle che erano considerate eresie come lo gnosticismo e il marcionismo. È all’interno della dialettica tra queste posizioni che troverà spazio un’immagine supersessionista di Paolo, che per molti secoli si identificherà con il pensiero stesso dell’Apostolo fino a farne il campione dell’antigiudaismo. Un’ideologia supersessionista di natura “settaria” esisteva già all’interno del dibattito ebraico del periodo del Secondo Tempio. Divenne però uno dei principi dell’antigiudaismo solo quando l’ebraismo rabbinico e il cristianesimo si trovarono su percorsi separati. Il «settarismo» ebraico, tuttavia, era un fenomeno distinto dal supersessionismo cristiano, poiché quest’ultimo si basa sulla presunta superiorità di una religione sull’altra.

È nel II secolo, a partire dalla Lettera di Barnaba e soprattutto dagli scritti di Giustino, che l’interpretazione di Paolo cambierà radicalmente. Da questi autori viene formulata per la prima volta la teoria della sostituzione, poi ripresa da Tertulliano e divenuta successivamente parte condivisa della tradizione cristiana. Tra Giustino e Tertulliano, Melitone fu il primo a formulare l’accusa di deicidio (Sulla Pasqua, 96), che sarebbe diventata uno dei pilastri dell’«insegnamento del disprezzo» dell’antigiudaismo cristiano. Fino a Ireneo di Lione però gli scritti paolini avranno un ruolo marginale nella predicazione cristiana, soprattutto perché usati dagli gnostici e dai marcioniti. Per questo erano visti con sospetto, poiché il loro uso poteva aprire la porta a posizioni eretiche o a quelle dei cosiddetti giudeo-cristiani. Giustino, nel Dialogo con Trifone, interpreta la storia di Abramo, cambiando il riferimento di Paolo in Rm 4. Per Paolo, la storia del Patriarca dimostra che sia l’ebreo che il gentile condividono lo stesso status davanti a Dio attraverso la fede nel loro padre comune. Giustino, dovendosi confrontare con gruppi giudaizzanti, utilizza però questa narrazione sottolineando le idee di «nuovo patto» «nuovo popolo» spingendo così verso un’opposizione inconciliabile tra cristianesimo ed ebraismo. Tertulliano nella sua diatriba contro Marcione afferma che «le critiche di Paolo sono dirette contro gli ebrei, non contro il loro Dio» (Adv. Marc. 5.8-14). Seguendo poi l’Adversus Haereses di Ireneo (cfr. 4.21,2-3), modifica l’interpretazione di Rm 9,12. Mentre Paolo, secondo l’ermeneutica ebraica, interpretava il fratello maggiore come rappresentante gli stranieri e il più giovane come Israele, Tertulliano attribuiva al più giovane il valore del cristianesimo e al più anziano dell’ebraismo.

È evidente che così, suo malgrado, Paolo sia stato utilizzato per combattere battaglie che non erano le sue (Marguerat, Paul de Tarse: L’enfant terrible du christianisme).

 

La riscoperta dell’ebraicità di Paolo

Giungendo agli inizi del XX secolo, alcuni pensatori ebrei quali Claude Montefiore, Kaufmann Kohler e Solomon Schechter, confrontandosi con il pensiero paolino non si riconoscevano in quel giudaismo stereotipato che veniva mostrato dai suoi interpreti cristiani. Dai loro studi così come quelli di autori cristiani come George Foot Moore o Albert Schweitzer iniziò a incrinarsi quel muro di letture antigiudaiche dell’Apostolo. Furono però le riflessioni in seno alle Chiese riguardo alle responsabilità della Shoah e un nuovo sguardo che si aprì sul giudaismo del Secondo Tempio grazie alla scoperta dei manoscritti del Mar Morto che portarono ad incrinare definitivamente la visione stereotipata del giudaismo del I secolo come una religione monolitica e particolarista a cui Paolo si opponeva. In questo contesto la figura di Ed P. Sanders (Paul and Palestinian Judaism) cambiò per sempre gli studi paolini demolendo stereotipi ed ermeneutiche anacronistiche. Un radicale sviluppo di questa New Perspective lanciata da Sanders, ha portato negli ultimi due decenni a recuperare pienamente l’ebraicità di Paolo dopo Damasco dandone una lettura within Judaism. Seppur le istanze fondamentali di tale prospettiva siano ormai largamente condivise dalla comunità accademica internazionale, permangono ancora criticità e spazi di dibattito. Se da un lato, infatti, questa prospettiva rischia nuovamente di appiattire il giudaismo nel quale Paolo è ricollocato, dall’altro stanno emergendo sempre più studi e specialisti che cercano di definire dettagliatamente l’originalità e le diversità di Paolo in un mondo giudaico fortemente caratterizzato da varietà e pluralismo, viste non come elementi inconciliabili ma come differenti tentativi di risposta ai medesimi interrogativi tipicamente e indiscutibilmente giudaici.

 

Cristo «unica» e «inclusiva» via di salvezza

È proprio nella ridefinizione di questo ritratto di un ebreo messianico e apocalittico del I secolo che è necessario chiedersi chi fosse e come si collocava Cristo per l’Apostolo. In particolare, come Paolo interpretava l’essere «in Cristo» riguardo all’imminente fine dei tempi, all’origine e al dominio del male, alla Torah, a Israele e al rapporto dei gentili con questo mondo. Ognuna di tali questioni pone un punto di domanda, un dibattito, una necessaria problematizzazione, come riportato nel volume. La scoperta di Cristo come unica via di salvezza cancella i doni precedenti di Dio o vi si aggiunge? Sostituisce o integra? Esclude o include?

Leggere Paolo nel giudaismo del suo tempo permette di abitare queste domande senza correre il rischio di cadere in anacronismi o ideologie che non hanno niente a che vedere con lo specifico contesto giudaico del I secolo.

 

Gabriele Boccaccini, Giulio Mariotti


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