Animus… speculator sui (Seneca, De ira III, 36)
Il tentativo di riordinare la propria vita interiore, catalogando e descrivendo attentamente i moti dell’animo, trova certamente nell’opera di Evagrio uno dei punti imprescindibili nella storia di questa lunga ricerca. Il suo instancabile lavoro, tuttavia, non è soltanto un punto di partenza per molti autori e molti asceti successivi, ma rappresenta anche una sintesi di quanto, in questo campo, lo ha preceduto. Per chi volesse approfondire questo aspetto, sarà senza dubbio indispensabile la lettura del volume che fa da prefazione al Trattato pratico nell’edizione francese dei coniugi Guillaumont (Traité pratique ou Le moine, Éditions du Cerf, Paris 1971, 63-90) e ripresa dallo stesso Antoine Guillaumont nel volume postumo Un philosophe au désert. Evagre le Pontique, Paris 2004, 212-213.
Evagrio si rivela erede di una tradizione non propria di una singola civiltà, ma di molte che, nel corso dei secoli, si sono incontrate e spesso fuse insieme tra loro sulle rive e sulle rotte del Mediterraneo e forse oltre, come suggeriscono svariati studi che confrontano e accostano gli esercizi di Evagrio a quelli del mondo orientale, in particolare del buddhismo. Guillaumont, nei suoi lavori, mette in particolare evidenza la concorrenza degli influssi del pensiero filosofico greco (Platone, Aristotele, stoicismo), del mondo ebraico (da tenere in particolare considerazione la letteratura giudeo-ellenistica e i testi di Qumran) e di alcuni scritti neotestamentari insieme a quelli di altri scrittori cristiani dei primi quattro secoli della nostra era.
Gli scritti ascetici di Evagrio presuppongono sempre un’antropologia ben precisa, che affonda le proprie radici negli scritti filosofici di autori pagani e cristiani che lo hanno preceduto. L’esplorazione dell’interiorità umana, il chiedersi che cosa sia veramente l’uomo, è un argomento cui si interessano svariati pensatori nella seconda metà del IV secolo, grosso modo negli stessi anni (385-399) in cui Evagrio compone le proprie opere ascetiche nel deserto di Kellia. Si ricordi, solo per citare due opere assai note, che tra il 387 e il 389 Agostino scrive il De quantitate animae, mentre tra il 381 e il 385 Gregorio di Nissa compone il dialogo Sull’anima e la resurrezione. Entrambe le opere, pur diverse tra loro, si interrogano sulla natura dell’anima umana, ponendola anche in relazione con il corpo, sulla base di materiale che affonda le proprie radici nel pensiero neoplatonico.
La conoscenza dei moti dell’anima tra i padri del deserto
Nello stesso periodo, anche il monachesimo nascente presenta, ovviamente, una particolare attenzione alla conoscenza dell’uomo e, soprattutto, alla sua interiorità. Il presupposto antropologico è ancora quello più comune nel mondo antico, che vede l’essere umano composto di σῶμα, ψυχή e νοῦς, con l’anima che a sua volta, secondo l’insegnamento di Platone, è divisa tra le parti irascibile, concupiscibile e razionale. L’idea che alcuni pensieri, le cosiddette “tentazioni”, possano cercare di insidiare il cammino del monaco attaccandolo di volta in volta in una delle parti, si trova già in alcuni scritti dell’ambiente del deserto egiziano precedenti ad Evagrio.
A titolo esemplificativo – sarebbe necessaria un’indagine molto più vasta, che comprendesse almeno una parte degli Apophtegmata patrum e le regulae di Basilio –, si possono prendere in considerazione alcuni passi della Vita di Antonio scritta da Atanasio subito dopo la morte (356) di quello che è tradizionalmente considerato il padre del monachesimo eremitico. All’inizio del testo, si può osservare come Antonio sia assalito dalla tentazione della lussuria:
Il Nemico […] confidò in quelle armi che si trovano presso l’ombelico e se ne gloriò – sono queste le prime insidie contro i giovani –. Assale così il giovane turbandolo di notte, molestandolo di giorno al punto che quelli che lo vedevano si accorgevano della lotta che si combatteva tra i due. L’uno, infatti, suggeriva pensieri impuri, l’altro li scacciava con le preghiere; l’uno lo eccitava, l’altro, come arrossendo di vergogna, dava forza al suo corpo mediante la fede e i digiuni. Il diavolo, sciagurato, di notte assumeva anche l’aspetto di una donna e ne imitava il comportamento in tutte le maniere, con il solo intento di sedurre Antonio. Ma questi, pensando a Cristo e meditando sulla nobiltà che l’uomo possiede grazie a lui e sulla qualità spirituale dell’anima, spegneva il fuoco della sua seduzione. (Vita 5, 3-5; tutte le traduzioni sono tratte da Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio – Antonio abate, Detti – Lettere, a cura di Lisa Cremaschi, Paoline Editoriale Libri 2007).
L’attacco avviene sul piano fisico, ma la difesa di Antonio si attesta anche su un livello spirituale, con la preghiera e la riflessione “sulla qualità spirituale dell’anima”. In altri passi del medesimo testo, Atanasio elenca i pensieri che assaltano Antonio:
Il diavolo […] incominciò a mettere in opera anche contro di lui i suoi intrighi abituali. Per prima cosa cercò di distoglierlo dall’ascesi ispirandogli il ricordo delle ricchezze, la sollecitudine per la sorella, l’affetto per i parenti, l’amore per il denaro, il desiderio di gloria, il piacere di un cibo svariato e ogni altro godimento della vita. Infine gli suggeriva il pensiero di come sia aspra la virtù e quali fatiche richieda e gli metteva dinanzi la debolezza del corpo e la lunghezza del tempo. Insomma risvegliò nella sua mente una grande tempesta di pensieri, perché voleva distoglierlo dalla sua giusta decisione (Vita 5, 1-3).
O ancora, in Vita 21, 1, Atanasio fa dire ad Antonio: “Lottiamo, dunque, per non essere dominati dall’ira, né posseduti dalla concupiscenza”. In Vita 55, 2-3 è invece il narratore che richiama la lotta di Antonio contro due pensieri in particolare:
A tutti i monaci che venivano a trovarlo raccomandava costantemente di avere fede nel Signore, di amarlo, di tenersi lontani dai pensieri impuri e dai piaceri della carne e, come sta scritto nel libro dei Proverbi, di non lasciarsi ingannare dalla sazietà del ventre, di fuggire la vanagloria.
Per vincere la lotta contro i pensieri suggeriti dai demoni, Antonio consiglia anzitutto la népsis, la vigilanza, unita ad un serio esame di coscienza (Vita 55, 7: «Ogni giorno ciascuno si chieda conto delle azioni compiute durante il giorno e durante la notte») da svolgere quotidianamente, secondo una tradizione già avviata da filosofi quali Seneca (es. De ira 3, 36), Epitteto o Marco Aurelio. Antonio ritiene dunque che che sia necessario «conoscere ciò che riguarda i demoni: quali di loro sono meno malvagi, quali di più e qual è l’arte in cui ciascuno è più solerte e in che modo ciascuno può essere respinto e scacciato» (Vita 22,3). Similmente Evagrio, nel Trattato pratico al capitolo 43:
Bisogna anche conoscere le differenze tra i demòni e segnarsi i loro momenti: conosceremo dai pensieri – e i pensieri dalle cose – quali tra i demòni siano rari e più pesanti e quali assidui e più leggeri, e quali quelli che irrompono tutti insieme e rapinano l’intelletto spingendolo alla bestemmia (Paolo Bettiolo, Evagrio Pontico. Per conoscere lui, Qiqajon, Magnano 1996).
Conclusioni
La catalogazione e la sistematizzazione dei pensieri di malvagità da parte di Evagrio è dunque il compimento di uno sforzo secolare, che idealmente prende le mosse dal detto, particolarmente caro a Socrate e Platone, «conosci te stesso», iscritto sul tempio di Delfi. Evagrio offre così il proprio contributo per un cammino di miglioramento personale, di cui ogni uomo sente la necessità, indipendente dal luogo e dal tempo in cui si trova a vivere.
Diego Marchini
0 commenti