La genesi della Vita di Severino
Nel 509 d.C., in un monastero di Napoli giunge una missiva indirizzata da un nobile laico ad un prete, in cui si narrano le vicende di un pio monaco vissuto in un convento sul monte Titano, nell’odierna Repubblica di San Marino. La vita del sant’uomo suscita un notevole interesse tra i religiosi, tanto che ben presto qualcuno comincia a produrre delle copie dello scritto e a diffonderle. Davanti al successo di questa biografia – una delle tante che popolano l’universo letterario tardoantico – il presbitero Eugippio avverte la necessità di affidare alla pagina scritta la memoria di quanto Dio ha compiuto per mezzo di San Severino, le cui spoglie riposano presso il cenobio napoletano da ormai quasi vent’anni. La questione giunge in qualche modo alle orecchie dell’autore della lettera, il quale non esita a chiedere ad Eugippio qualche testimonianza sul santo, per poter comporre un’elegante agiografia. Il monaco riflette, raccoglie testimonianze, compone il suo commemoratorium, ma in fin dei conti non se la sente di far redigere un’opera di questo genere ad un laico e così scrive al diacono Pascasio, nella speranza che sia lui, dall’alto della sua formazione retorica, a dare forma ordinata a quel materiale grezzo. È proprio la missiva che Eugippio premette al suo scritto, tradita insieme con esso, a consentire a noi posteri di ricostruire agevolmente la genesi della Vita di Severino; Pascasio, la cui risposta è pure conservata, non troverà nulla da aggiungere al commemoratorium e proporrà al suo autore di pubblicarlo senza ulteriori modifiche.
L’apostolo del Norico
La Vita di Severino si presenta, dunque, come un testo privo di velleità letterarie, atto semplicemente a far sì che i membri di un cenobio napoletano non dimentichino chi è stato il loro patrono. Eugippio, che evidentemente non è digiuno di retorica come vorrebbe far credere, sa bene che in una biografia la prima questione da affrontare riguarda le origini del protagonista; eppure, nella sua lettera al diacono Pascasio confessa di non avere informazioni al riguardo: Severino ha sempre preferito tacere della sua patria terrena, per non cadere nel peccato della vanagloria. La Vita si apre, però, con indicazioni relative al tempo ed al luogo in cui il santo ha operato – un incipit che in poche righe delinea uno scenario ben lontano dalla quiete del Golfo di Napoli:
«Quando morì Attila, re degli Unni, le due province della Pannonia e gli altri paesi confinanti con il Danubio erano turbati da uno stato di grande incertezza. Fu proprio in quel momento che Severino, il più santo servo di Dio, venne dall’Oriente ai confini del Norico Ripense e delle province della Pannonia e prese dimora in una piccola città chiamata Asturae» (cap. 1.1, qui proposto nella traduzione di Armando Genovese in Eugippio, Vita di Severino, Città Nuova, Roma 2007).
Il magistero spirituale di Severino è sin da subito messo in relazione con la morte di Attila, evento che sconvolge il debole equilibrio delle regioni danubiane, portando ad un’incertezza che ben presto evolve in scontri militari. Le terre in cui il santo porterà la Parola del Signore sono flagellate dalle lotte tra i warlords barbari e dalle scorrerie dei predoni; al contempo, i contadini che le abitano devono far fronte a carestie e catastrofi naturali. In questo clima, Severino accompagna la sua attività di predicazione con un intenso impegno politico: nel susseguirsi di aneddoti che lo vedono protagonista, egli si fa strumento della grazia divina non solo scacciando le locuste o guarendo i ciechi, ma anche consigliando i sovrani barbari ed ammonendoli a rispettare i cattolici. L’opera di Eugippio si rivela, così, un’utile fonte per comprendere le vicissitudini di una regione periferica e contesa, in cui l’uomo di Dio è chiamato a mediare tra fazioni in perenne conflitto tra loro, senza mai perdere l’integrità propria del rappresentante della vera fede.
Lo scenario danubiano, costantemente richiamato da una messe di dettagli di natura topografica, permette al biografo di evidenziare i contrasti tra il mondo germanico e quello romano, in una realtà caratterizzata da confini rigidi, ma non invalicabili. In effetti, la Vita di Severino è proprio il racconto di come il santo possa superare i limiti imposti dall’uomo, sottomettendo l’autorità dei signori della guerra barbari ai principi del cristianesimo e facendo della cura delle anime uno strumento propriamente politico. In queste terre contese, è Severino il vero rappresentante della civiltà romana; il suo ministero costituisce una risposta alla crisi sociale affrontata dai contadini di lingua latina, i quali si affidano alla sua leadership carismatica, oltre che alle sue qualità taumaturgiche. Sebbene, come in ogni agiografia, il ritratto del protagonista sia con ogni evidenza idealizzato, la rappresentazione del contesto culturale in cui egli si trova ad operare non può che suscitare un notevole interesse negli storici della Tarda Antichità.
La funzione dell’opera
Dell’autore della Vita di Severino sappiamo purtroppo ben poco. Ho, però, finora volutamente taciuto un dettaglio fondamentale: Eugippio è uno dei fondatori del cenobio napoletano, istituito da alcuni discepoli del santo a seguito dell’esodo dei Romani dal Norico. Attraverso la sua opera, il biografo mira, dunque, a stabilire un profondo legame tra la comunità monastica e le sue radici, in un clima di profonda venerazione per le reliquie del patrono. La Vita, che si conclude proprio col racconto della traslazione delle spoglie di Severino a Napoli, congiunge indissolubilmente il santo al luogo in cui è ancora possibile avvertirne la presenza. Per quanto distanti, il Norico e la Campania vantano un unico apostolo, capace – come giustamente sottolinea Jeanne-Nicole Saint-Laurent – di unire gli uomini sia da vivo, sia dopo la morte.
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