I termini della questione

Si denomina “questione del Filioque” la disputa sorta tra Chiesa d’Oriente e Chiesa d’Occidente a seguito dell’inserimento del termine Filioque, per l’appunto, nella versione latina del terzo articolo di fede del Credo Costantinopolitano del 381, con il quale si intende confessare così che lo Spirito procede dal Padre «e dal Figlio».

Il Filioque, sulla base di una tradizione teologica attestata da numerosi Padri della Chiesa d’Occidente, tra i quali Ilario, Ambrogio, Agostino e Leone Magno, che affermavano che lo Spirito Santo procede (procedit) eternamente dal Padre e dal Figlio, fu inserito in diversi simboli di fede fin dal V secolo e, successivamente, anche nel Simbolo niceno-costantinopolitano, certamente sin dalla fine dell’VIII secolo, come attestano gli atti dei concili d’Aquileia nel 796 e di Aquisgrana dell’809; mentre, l’inserimento nella versione liturgica latina del Credo risale soltanto al 1014.

 

 

Le complicazioni dovute ai fattori politici

È opportuno precisare, prima di soffermarsi su alcuni degli aspetti dottrinali della questione, che essa è stata profondamente segnata, e fors’anche complicata, da fattori politici. A titolo esemplificativo, si consideri, ad esempio, il ruolo giocato, nel concilio di Aquisgrana dell’809 sopra richiamato, dall’imperatore Carlo Magno. E come quest’ultimo fece sentire forti le sue pressioni presso papa Leone III (795-816), il quale ebbe comunque la forza di resistergli, rifiutandosi di inserire il Filioque nel Credo, per non intaccare con qualche variazione la formula di fede redatta da un concilio ecumenico.

 

La ragione “canonica” del rifiuto da parte degli orientali

 

Passando ora a cogliere le ragioni che portarono la Chiesa d’Oriente a rifiutare drasticamente questa “aggiunta”, si deve partire proprio dall’ultima precisazione e, cioè, dall’attenzione di papa Leone III a non intaccare la formulazione di fede promulgata da un Concilio. Infatti, l’unilaterale modificata di un testo conciliare da parte di una sola tradizione ecclesiale, in questo caso quella occidentale, al di fuori della celebrazione di un Concilio ecumenico, doveva apparire agli occhi degli orientali come un attentato alla suprema autorità di questa assise episcopale. Solo un Concilio, infatti, può modificare un testo conciliare, come era già avvenuto, per l’appunto, nel caso del Simbolo di fede promulgato nel Concilio di Costantinopoli (381) con il quale si erano apportati diversi adattamenti, con l’ampliamento di alcune parti e l’aggiunta di altre, al testo del Simbolo di fede del primo concilio ecumenico, quello di Nicea (325).

 

La ragione “dottrinale” del rifiuto

A questa ragione, di ordine “canonico”, se ne deve aggiungere un’altra, di ordine “dottrinale”. Gli orientali, infatti, vedevano compromessa, a causa di questa aggiunta, la dottrina della monarchia del Padre. Affermare, infatti, che lo Spirito procede dal Padre «e dal Figlio» (Filioque), potrebbe lasciare intendere che si voglia introdurre nella Trinità un “secondo principio”, accanto al Padre; in altre parole, confessando che lo Spirito non procede solo dal Padre, ma anche dal Figlio, comporterebbe l’inevitabile conseguenza che, nella Trinità, vi siano due fonti e due principi.

 

La ragione dell’aggiunta da parte degli occidentali

La volontà degli occidentali, tuttavia, non era affatto quella di intaccare questi capisaldi della fede trinitaria: non si intendeva affatto minare l’autorità del Concilio, e di conseguenza il valore normativo e irrevocabile del Simbolo di fede in esso definito, né tantomeno si voleva misconoscere la dottrina della “monarchia” del Padre. Anche la tradizione occidentale, infatti, confessa, sulla scia di Agostino, che lo Spirito Santo trae la sua origine dal Padre principaliter, cioè a titolo di principio (De Trinitate 15,25,47). Emblematico al riguardo è quanto afferma il Catechismo della chiesa cattolica: «L’ordine eterno delle persone divine nella loro comunione consustanziale implica che il Padre sia l’origine prima dello Spirito in quanto “principio senza principio”, ma pure che, in quanto Padre del Figlio unigenito, egli con lui sia “l’unico principio dal quale procede lo Spirito Santo”» (n. 248).

Quale allora la ragione dottrinale che spinse gli occidentali ad aggiungere il Filioque? Quella di contrastare l’arianesimo ancora virulento in Occidente. Affermare che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio era, in altri termini, un modo per ribadire che il Figlio è consustanziale al Padre e, quindi, per confessare la sua piena e vera divinità. L’intento, pertanto, non era tanto legato alla riflessione pneumatologica e, soprattutto, non vi era alcuna volontà di subordinare lo Spirito al Figlio, come invece gli orientali penseranno e, a volte, rimprovereranno agli occidentali; ma l’intento era prettamente cristologico, volendo anche in questo modo confessare la piena comunione del Figlio con il Padre e, quindi, la sua piena divinità.

 

Le ragioni dell’incomprensione tra orientali e occidentali

Se le ragioni che spinsero gli occidentali ad inserire questa “aggiunta” nel Credo non erano affatto quelle temute e rimproverate dagli orientali, da cosa furono causate le incomprensioni?

Una ragione la si deve rinvenire a livello “linguistico”: vi è infatti una falsa equivalenza tra il termine greco per esprimere la processione dello Spirito (ἐκπόρευσις) e quello latino (processio). Infatti, se il termine ἐκπόρευσις non significa altro che la relazione d’origine dello Spirito in rapporto al solo Padre in quanto principio senza principio della Trinità, il termine processio è più comune e può anche essere esteso alla sua processione dal Figlio.

Del resto, anche i Padri dell’Oriente non hanno mancato di sottolineare il ruolo che al Figlio si deve riconoscere nella processione dello Spirito. L’accortezza che loro avevano era quella di affermare che lo Spirito procede dal Padre «per mezzo del Figlio» o di utilizzare, per designare questa processione, un termine più generico rispetto a ἐκπόρευσις, quello di προϊέναι.

Ma l’incomprensione tra orientali e occidentali era dovuta, ed in parte lo è ancora, forse ad un’altra più radicale ragione: l’incapacità a cogliere come le due posizioni non siano due dottrine inconciliabili, ma due modelli teologici tra i quali è possibile e auspicabile una legittima complementarietà. Quando manca questa capacità o volontà si vengono a creare situazioni che, con un’efficace metafora, potrebbero essere definite simili a ciò che accade quando gli uni giocano a scacchi e gli altri a dama sulla stessa scacchiera.

In altre parole, la questione del Filioque, segnata da questioni dottrinali e complicata da fattori politici, segnala l’incontro, o lo scontro, di diverse sensibilità teologiche che non riescono a dialogare. Bene lo esprime il teologo Piero Coda:

 

I Cappadoci e Agostino esprimono anche le diverse sensibilità, in teologia trinitaria, di Oriente e Occidente. Non si tratta solo di diversità terminologiche, ma, più in profondità, di accentuazioni differenti nella prospettiva teologica e nell’intuizione spirituale. Nulla di così diverso da far deviare l’una o l’altra tradizione dall’ortodossia, intendiamoci. Ma quando le differenze saranno inalberate e contrapposte, sarà difficile cogliere quell’unità che – trinitariamente – non può mai significare uniformità. Ci si accorgerà di questo, dolorosamente, nella polemica intorno al Filioque: così che la dottrina sullo Spirito Santo, vincolo di comunione in Dio e tra Dio e gli uomini, potrà addirittura diventare occasione di separazione tra i discepoli di Cristo (Dalla Trinità, p. 388).

 

L’interpretazione della Scrittura

Al termine di questa breve nota, è utile precisare che i Padri del Concilio di Costantinopoli aggiunsero al Credo di Nicea l’affermazione che «lo Spirito procede dal Padre» non fecero altro che accogliere la lezione di Gregorio di Nazianzo, che affermò: «I termini di “non essere stato generato” e di “essere stato generato” e di “procedere” indicano l’uno il Padre, l’altro il Figlio, il terzo quello che si chiama, appunto, Spirito Santo» (Discorso 31,9).

Da parte sua, il Nazianzeno aveva raccolto la sua lezione dalle parole con cui Gesù promette ai suoi discepoli il dono dello Spirito: Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede (ἐϰπορεύεται) dal Padre, egli darà testimonianza di me (Gv 15,26).

Questo fondamento scritturistico della dottrina gregoriana consente di concludere questa nota ricordando che la riflessione teologica è fondata sulla Scrittura e deve continuamente coltivare il compito, spesso non facile, di interpretare i testi biblici per raccogliere l’inesauribile ricchezza che essi contengono. In un prossimo post, mi riservo di offrire un esempio emblematiche delle fatiche e della complessità a cui l’interpretazione della Scrittura chiama lo studioso.


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